Non
sono solo i ciclamini a fiorire con i primi freddi; anzi, quando
si parla della vegetazione tipica del nostro territorio, non si
può fare a meno di ricordare un'umile pianticella che fiorisce
nelle nostre campagne e che conosce grande notorietà a livello
locale in campo gastronomico perché considerata una leccornia,
mentre invece nel resto della penisola risulta tanto sconosciuta
da non avere neppure un nome popolare che serva ad indicarla.
Vogliamo alludere al cosiddetto "lampasciòne"
comunemente diffuso nei nostri mercati perché, pur costituendo un
gustoso e singolare alimento, conosce una diffusione solo
regionale, tanto da essere noto solo col suo nome pugliese.
Infatti, al di là dei confini regionali non si sa neppure che
questa specie di pianta nasce da bulbi che, opportunamente
trattati, costituiscono un tipico ingrediente di svariati piatti
regionali. Ma, prima di parlare dell'utilizzo gastronomico di
questi bulbi ci sembra opportuno descrivere almeno per sommi capi
la pianta. I Muscari, della famiglia delle Liliacee, specie
botanica cui questa pianta appartiene, portano un nome illustre ed
antico; essi, infatti, debbono la loro denominazione ad un
illustre botanico di Costantinopoli, vissuto nel diciassettesimo
secolo, C. Clusius. Ciò non meraviglia se si considera che l'aria
di diffusione dei Muscari comprende appunto, oltre al bacino del
Mediterraneo, anche l'Asia Sud occidentale. Ma, della cinquantina
di specie che la famiglia comprende, solo sette hanno diffusione
nella nostra penisola. Tutte le varietà hanno in comune alcune
caratteristiche. Come le foglie strette, che si dipartono dal
bulbo tunicato o i fiori disposti in spighe o racemi, per lo più
azzurri. Il nostro "lampasciòne" che in latino si chiama
Muscaricomosum, è appunto uno dei sette, insieme a varietà
come il Racemosum, dai fiori odorosi, o l'Armeniacum,
che viene coltivato a fini ornamentali. Lontano parente
dell'aglio, al quale è legato dall'appartenenza alla stessa
famiglia (anche l'aglio e una liliacea, anche se si stenta
a credere che il suo odore abbia nulla in comune con il profumo
dei gigli) somiglia nell'aspetto più alle cipolle, perché non in
spicchi si struttura, ma in tuniche sovrapposte e compatte, che
assumono nel bulbo la forma grosso modo di una piccola trottola. I
cercatori stanno bene attenti a non danneggiarla nell'estrazione,
spazzolandola poi dal terreno che aderisce a causa della sua
superficie leggermente vischiosa. Una volta accantonata la preda,
si ricomincia! Un lavoro indubbiamente duro, che richiede occhi,
gambe e schiena buoni e che giustifica con la sua difficoltà il
prezzo sostenuto del prodotto sul mercato. Un tempo, quando gli
aratri erano semplici attrezzi artigianali che smuovevano poco
profondamente lo strato di terreno, i lampasciòni venivano in
superficie arando, ma oggi che il suolo subisce lo scasso
provocato da macchine potenti, vanno cercati uno ad uno,
perlustrando attentamente il terreno e scavando solo quando la
pianticella si rivela. Ma le difficoltà, per chi volesse gustare
questi squisiti frutti della terra, non sono certo finite. I lampasciòni vanno pelati, lavati più volte finche non si saranno
liberati completamente della patina bruna di terra che li riveste,
quindi vanno tenuti a bagno, finché, emettendo una specie di
seriosità collosa, non avranno perso il sovrappiù di amaro, che li
renderebbe ingrati al palato. Solo dopo avere ricevuto queste
attente cure, ed aver reso nel frattempo pressoché impresentabili
le mani della massaia, saranno
pronti per gli usi di cucina. Il
periodo idoneo per la raccolta dei lampasciòni inizia verso la
fine di gennaio e termina nella prima metà del mese di aprile.
Pochi sono rimasti i luoghi dove si possono ancora trovare
lampasciòni spontanei: nelle mezzane, lungo le cunette e in alcuni
oliveti non coltivati. I terrazzani contemporanei, muniti di “zappunetto”,
attrezzo necessario per cavare i lampasciòni, per divertimento
vagano alla ricerca delle ultime mezzane per trovare i lampasciòni.
Le foglie del bulbo del lampascòne sono simili a quelle delle
cipolle, strette e lunghe, di colore verde intenso; queste se sono
corte e ricce indicano che il bulbo si trova in superficie, mentre
se sono lunghe e lisce indicano che il bulbo si trova in
profondità. La grandezza del lampasciòne varia da pochi millimetri
a oltre 4 centimetri di diametro.
Lessi, con olio e pepe,
leggermente schiacciati con i rebbi di una forchetta, è il modo
più semplice e comune di apparecchiarli, ma l'uso dei contadini
ascolani vuole che, così come vengono raccolti, siano messi a
cuocere sotto la cenere. Solo una volta cotti, vanno privati della
parte più esterna e conditi con olio, aceto e sale. Gli
intenditori sostengono che in questo modo i lampasciòni conservano
tutto il loro sapore, e che quindi siano da preferirsi, ma in
realtà sono altrettanto gustosi cotti al forno con patate ed
agnello o sotto forma di frittata con l'uovo.
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